Copy – Stili di scrittura #personale

“Popsicles”

Quando si è bambini tutto è più fontastiko. Il piacere viscerale della scoperta ti porta a godere di sensazioni che l’incessante e scellerata brutalità del tempo non ti permetterà mai più di rivivere appieno. Io ad esempio mi drogavo di centrifuga.

Veder volteggiare quel doppio cestello a carico anteriore, all’interno di un sistema di riferimento non inerziale, mi faceva venire la pelle d’oca.

Una corruzione pulita che nella mia personalissima top five di perversioni preinfantili (le altre erano: l’eco lontano degli aerei, le vampate della stufa e il phon sul pisellino) era seconda solo a ciò che già ai tempi descrivevo con sensibile accuratezza come, lo Shangri-la della “Seconda infanzia”. E cioè: addentare un numero libidinosamente infinito di volte le spugne nuove del bagno.

Non so perché mi eccitasse così tanto, ma quando adocchiavo una spugna fresca d’incarto, l’unico input che il mio cervello assorbiva era quello di inzupparla fino ad aumentarne il “p=m/V” all’inverosimile e affondarci i miei dentini da latte con la stessa ferocia con cui il Dott. Savigny degustava i propri “colleghi” sulla Medùse.

Una sensazione del tutto sopita, risvegliatasi qualche tempo fa alla vista di Popsicles, le spugne gelato realizzate dal collettivo artistico danese Putput, in cui il dialogo visivo instaurato con l’oggetto, esorta lo spettatore a interrogarsi sull’equilibrio che intercorre tra l’idea e il significato.

Uno strano connubio bocca-spugna che se per alcuni sembra essere nient’altro che una soluzione estetica, per altri rappresenta un’esperienza “papillare” al di fuori dal comune, in grado di riportarli indietro anche di 30 anni.